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Giuliana Boccadamo

Nel 1562 Diego Malgaresio alias Mansur, moro, è il papasso della moschea dei mori napoletani. È un cattivo soggetto, ma prima di spiegare perché, è necessario che mi soffermi un momento sulla Napoli del Cinquecento, una città cosmopolita e tollerante nei confronti di altre etnie e religioni soprattutto nella prima metà del secolo: nel 1514 vi troviamo una comunità di ‘nigri’ che si autogestisce, ha un proprio codice comportamentale e gode anche di una certa autonomia religiosa. Una causa fra due ‘nigri’, Caterina de Coronata e Giovanni Tonna della Taurina, due convertiti al cristianesimo, a giudicare dai loro nomi, viene risolta dalla comunità dei negri di Napoli con un compromesso «in mano de quattro negri quali erano maestri della cappella delli negri». Una comunità che esporta, per così dire, anche balli ed usanze: ne è prova la ‘sfessania’, il ballo derivato sembra dalle danze dei mori, su cui dà particolari per la fine del Cinquecento Giovan Battista del Tufo.

Torniamo ora alla moschea, probabilmente la prima moschea attestata in Italia: è una stanza a piano terra illuminata da lampade, dove officia il nostro Diego. Perché è un cattivo soggetto? Perché lo si accusa, forse non tanto di essere un papasso, di officiare riti musulmani, ma di farlo essendo un convertito, un rinnegato, uno che si era fatto battezzare e poi aveva condotto una doppia vita, un po’ da cristiano, un po’ da musulmano. L’accusa principale che gli viene rivolta è ben circostanziata: «ha mantenuto li riti et costumi dei mori in far la quadragesima et altri costumi infideli, et magnar carne et venerdì et sabato et altri dì prohibiti… come capo et principale papasso de’ mori… l’era dato il primo loco in la mensa et li meglio bocconi de quelli cibi de carne in li dicti dì prohibiti». Fa la quaresima musulmana, il ramadan, si professa cristiano andando alla processione del Corpus Domini, ma mangia carne nei giorni proibiti della quaresima dei cristiani. Il discrimine per accertare il divario fra fede dichiarata e fede professata sembra essere quindi il consumo di cibi proibiti.

Mansur non è il solo ad essere giudicato per i suoi comportamenti alimentari: Amet Caleffi, un moro non convertito, coerente con la sua fede e rispettato dagli inquisitori napoletani, ha due fratelli battezzati e sposati con due more cristiane. Come e se pranzano assieme nei giorni di festa, si chiede l’inquisitore. E in quali feste, cristiane o musulmane, e con quali cibi? Ancora, come si può convivere, cristiani e musulmani nella stessa casa, come si può fare cucina in comune? Ed ecco che l’inquisitore va ad ispezionare la cucina di Raimo de Monasterio, battezzato, che vive con la moglie anche lei cristiana e con la madre musulmana. Al buon prelato si allarga il cuore nel vedere in dispensa semola, olio, carne salata e soprattutto «pettorina», o «presutto», carne di maiale vietata ai musulmani. È evidente che è la madre di Raimo qui a doversi adattare ai costumi cristiani; il «cuscusu», dice la nuora, in quaresima lo si prepara senza carne. Convivenza di due persone appartenenti a fedi diverse mal si accordano però con i più elementari principi di economia domestica: è impensabile fare «due spese e due pignati», sottolinea l’inquisitore e poi, se una cristiana cucina carne per un musulmano in quaresima, come può non assaggiare quanto sta preparando, contravvenendo così al precetto dell’astinenza dalle carni?

Soffermiamoci adesso su un altro scenario. I cristiani catturati dai musulmani, per mare o nelle razzie sulle coste, resi schiavi e condotti in Levante o nel Maghreb, spesso si convertivano all’Islam. A volte malvolentieri, e per questo facevano di tutto per recuperare la libertà e tornare in terre cristiane. Ma qui erano da considerare musulmani a tutti gli effetti, e quindi era necessario, per poter riacquistare dignità e scampare alla schiavitù nella quale potevano incappare essendo pur sempre musulmani in cristianità, presentarsi all’inquisitore e farsi ‘riconciliare’, abiurare cioè il credo musulmano e riabbracciare quello di appartenenza.

Ma come erano vissuti da seguaci dell’empio Maometto? Avevano aderito in tutto e per tutto al credo musulmano e ai suoi scellerati dettami?  E come verificarlo?  Ancora una volta il discrimine è quello del cibo. Hanno osservato il ramadan? Chiede l’inquisitore. Sono riusciti ad osservare le proibizioni quaresimali malgrado il serrato controllo dei musulmani? Le risposte non lasciano dubbi. Tutti gli inquisiti affermano di aver mangiato carne in quaresima: non se ne poteva fare a meno, affermano concordi. Qualcuno sostiene di averne mangiato in presenza di musulmani e di essersene astenuto in loro assenza. Più sottile è un’altra domanda che progressivamente affianca quella sulla quaresima: se e quando è stato possibile mangiare carne di maiale? In sfregio quindi alla proibizione musulmana?  Il divieto, purtroppo per l’inquisitore, sembra rispettato in linea di massima, ma con delle trasgressioni pericolose e appaganti al tempo stesso: si fa festa nelle carceri di Costantinopoli per un salame che un novello schiavo è riuscito a portare con sé, ma il pericolo è grande e stavolta sono i musulmani a non transigere. Infrangere il divieto rende caur, impuri, porta dritto dritto al rogo.

Più sfumata appare un’altra trasgressione, quella che vieta il consumo di vino ai musulmani e quindi ai convertiti. Fra i rinnegati c’è chi lo fa mettendo a mollo l’uva passa, senza grandi pericoli par di capire, ma d’altronde le fonti attestano una devianza fra gli stessi musulmani, almeno fra quelli che si sono ‘contaminati’ in cristianità e poi sono tornati al loro luogo d’origine.

L’ultimo caso di discrimine alimentare su cui intendo soffermarmi ci porta nuovamente a Napoli, nel Settecento, all’epoca dell’arrivo in città di un gruppo di ebrei. Arrivo voluto da Carlo di Borbone che intendeva così porre fine al divieto di permanenza degli ebrei nel Regno di Napoli, divieto che risaliva alla prima metà del Cinquecento, e voleva dare impulso al commercio locale, sfruttando proprio l’abilità mercantile ebraica. Le cose andarono diversamente da quanto il sovrano aveva sperato e l’esperimento si concluse in malo modo, con un nuovo allontanamento degli ebrei, nel 1747, ad appena sette anni dal loro arrivo nel Regno.

Fra le cause che resero difficile la convivenza fra ebrei e napoletani ci furono problemi legati a forme di contaminazione e più banalmente problemi economici sempre legati, però, al consumo di cibi particolari. Diciamo subito che la comunità ebraica, dopo un anno dalla riammissione, contava appena 121 unità, che da allora in poi continuarono a scemare. Però, era possibile che anche gli ebrei si ammalassero e morissero. E allora dove seppellirli? Si poteva buttarli a mare come qualcuno forse aveva suggerito? E qui interviene il timore della contaminazione: sicuramente, si fece notare, il popolo, se se ne fosse accorto, non avrebbe più voluto mangiare pesce almeno per un mese, per timore di mangiare carne di ebreo attraverso i pesci. Era già capitato con cadaveri cristiani, quando qualche barca era affondata e il mare aveva restituito poi le salme un po’ malconce, ma lo scandalo, il disgusto, sarebbe stato maggiore di fronte a cadaveri di ebrei con la cui presenza in città la popolazione si era in fondo mal riconciliata. Fu giocoforza trovare luoghi acconci per le onoranze funebri, che dovevano tenersi di notte e senza strepito.

Un altro motivo di scontro fu quello della macellazione rituale. E qui il popolino napoletano forse spalleggiava gli ebrei. In pratica, la comunità ebraica chiedeva di avere un proprio macello, visto il diverso modo di macellare gli animali, e il permesso di vendere la carne al suo interno, ma anche a napoletani che volessero acquistarla. Gli ebrei non mangiavano alcune parti degli animali macellati, frattaglie e quant’altro, e i macellai ebrei, pur di non buttare parti consistenti degli animali, volevano poterle vendere al minuto. E qui si scatenò, più che l’avversità verso le pratiche rituali ebraiche, la reazione dei macellai napoletani. Quelli ebrei, pur di non buttare la carne, erano disposti a venderla quasi a prezzo di costo, e si trattava pare di ottima carne,  quelli napoletani, abituati a vendere a ben altri prezzi, non potevano certo essere d’accordo. Ma non c’era solo questo. Dove avrebbero potuto macellare gli animali gli ebrei? Un bando del 1743 imponeva a tutti i macellai di servirsi del macello pubblico, in un luogo chiamato Mantrone. Ma avrebbero potuto farlo i macellai ebrei? «Ammazzando colà gl’animali gli ebrei ed usando nel farlo loro sciocchi e superstiziosi riti, la plebe che ciò vede e non si guida facilissimamente con la ragione» potrebbe fare contro di loro «qualche perniciosissimo insulto che può avere pericolose conseguenze».

Nemmeno la prospettiva di carne a basso costo avrebbe potuto frenare il popolino disgustato dalla particolare ritualità della macellazione kasher.

Bibliografia

  1. Rostagno, Mi faccio turco. Esperienze e immagini dell’Islam nell’Italia moderna, Roma, Istituto per l’Oriente C.A. Nallino, 1983.
  2. Scaraffia, Rinnegati. Per una storia dell’identità occidentale, Roma-Bari, Laterza, 1993.
  3. Bono, Schiavi musulmani nell’Italia moderna. Galeotti, vu’ cumprà, domestici, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1999.
  4. Boccadamo, Napoli e l’Islam. Storie di musulmani, schiavi e rinnegati in età moderna, Napoli, M. D’Auria Editore, 2010.
  5. Montanari, Mangiare da cristiani: diete, digiuni, banchetti. Storie di una cultura, Milano, Rizzoli, 2015.
  6. Lacerenza, “Carolus Rex Judaeorum? Per una rilettura dei rapporti fra Carlo III e gli ebrei”, in Carlo di Borbone. Un sovrano nel mosaico culturale dell’Europa. Atti del Convegno di Napoli, 17-18 novembre 2016, Istituto Universitario L’Orientale, c.d.s.