Seleziona una pagina

Gaia Bruno

Che cosa mangiavano gli abitanti di Napoli nel Settecento? L’analisi di quei preziosi documenti che sono gli inventari post mortem permette di affrontare il tema con uno sguardo diretto sulla quotidianità del passato. In questi documenti si trova spesso una descrizione degli utensili di cucina, mentre le indicazioni sui generi deperibili come quelli alimentari sono più rare, ma non assenti.

Naturalmente i cibi elencati erano quelli che si potevano conservare più a lungo. I metodi del tempo rendevano ciò possibile attraverso la raccolta di ghiaccio e neve. Di tale usanza abbiamo un esempio nell’inventario dell’aristocratico Niccolò Caracciolo, il quale tra i mobili del suo appartamento poteva vantare il possesso di una “boffetta da neve”, forse usata per assecondare la passione aristocratica per i sorbetti. Più diffusi erano l’affumicamento e la salatura. Le dispense esaminate presentano diversi esempi di carne salata ed un solo esempio di pesce salato (i “due pezzotti di baccalare” del ricco Vito De Angelis): l’avvocato Mastrilli possedeva un capocollo, Vito De Angelis dodici salsiccioni, il pizzicarolo Salvatore Manzo dieci soppressate. Gli insaccati, consumati da tutti i ceti sociali, erano in effetti prediletti dal popolo perché meno costosi e più durevoli rispetto alla carne fresca.

Quest’ultima veniva consumata raramente sulle tavole umili. Tra gli animali più diffusi c’era il maiale, di cui il popolo sfruttava ogni parte, comprese le interiora, la pelle, il muso e le orecchie. Nascono così quelle pietanze che sono entrate nella tradizione gastronomica napoletana, come il soffritto o il ragù.

La carne fresca di tutti gli animali, compresi i volatili, era un alimento per i più abbienti. Nei nostri inventari è attestata la presenza di un tipo particolare di volatile, il cui consumo è oggi desueto: il piccione. Una “sporta per palombi” del capitano di cavalleria Giuseppe Alvarez Loba testimonia il suo utilizzo in cucina.

Durante i pasti la carne era servita con diverse cotture, secondo quanto consigliava il celestino Vincenzo Corrado nel suo Cucina napoletana, dei primi del XIX secolo. In questo testo, tra le sei portate che compongono il pranzo di una persona benestante, la carne viene proposta almeno tre volte, come lesso, come pietanza al forno, come arrosto.

Altrettanto importante era il condimento. Tutti quelli che il celestino proponeva, che fossero a base di prezzemolo, mandorle, uova, senape o noci, erano preparati con olio e/o aceto. Questi condimenti sono in effetti presenti solo nelle dispense dei più facoltosi del nostro gruppo.

Ma il grasso che risulta più diffuso nelle fonti è quello animale. Più che burro, lardo e sugna, entrambi derivati dalla lavorazione del maiale. Se ne trova in casa dei ricchi Andrea Balzano (20 rotola di lardo), Vito De Angelis (tre pezzi) e Orlando Villano (18 rotola di lardo), ma anche del pizzicarolo Salvatore Manzo (quaranta rotola di lardo e dieci di insogna) e dell’ortolano Biagio Strina (quattro pezzi di lardo, un pignatto piccolo di insogna). Il grasso era impiegato dal popolo soprattutto nelle fritture per scagliozzi, pizze o sfogliate, dai benestanti anche nei brodi per minestre e zuppe.

La base di zuppe e minestre erano le verdure di cui vi era una grande varietà. Data la veloce deperibilità del genere, è facile immaginare come esso non venisse conservato in dispensa. Tuttavia uno straordinario documento, l’inventario dell’ortolano Biagio Strina, morto nel 1784, contiene anche l’apprezzo delle verdure che l’uomo aveva raccolto poco prima di morire: “rafanelli, lattuche, cipolle, aglio, broccoli, torzelle, cavolfiori, pergola, centrangolo, una ceppa di lauro”.

Nonostante la ricchezza dell’offerta di cui questo elenco è un buon esempio, il consumo delle verdure divenne nel tempo sempre più elitario. Le coltivazioni cerealicole infatti erano molto più adatte a sostenere l’incremento demografico della tarda età moderna. A Napoli il declino del consumo di ortaggi è stato fatto risalire al XVII secolo: da allora in poi pizze, tortani e paste divennero la principale fonte di sostentamento, economico e nutriente per una grande massa di popolazione. La centralità del grano nell’alimentazione dei napoletani è ampiamente confermata da quanto si trovava nelle dispense di cui abbiamo una traccia documentaria. Tutti ne possedevano almeno una piccola scorta. Data l’importanza del grano, l’approvvigionamento della capitale era tra le preoccupazioni principali dei governi monarchici e municipali e le varie fasi della panificazione erano rigidamente disciplinate in termini di prezzi, peso del prodotto e differenziazione dei ruoli produttivi.

Questi sono i generi alimentari di cui è rimasta traccia. Altri alimenti importanti come il formaggio compaiono raramente. La ragione di questa assenza si può trovare probabilmente se si tiene conto della presenza in città di venditori ambulanti, taverne e osterie, un universo sviluppato oltre la casa e la sua dispensa, ancora tutto da esplorare.

Bibliografia

Pedrocco, La conservazione del cibo: dal sale all’industria agro-alimentare, in Storia d’Italia, Annali Einaudi, XIII, L’alimentazione, a cura di A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni, pp. 379-447. M. Calaresu, Making and Eating Ice Cream in Naples: Rethinking Consumption and Sociability in the Eighteenth Century, in ‹‹Past Present››, 2013, 220, 1, pp. 35-78. Sull’alimentazione del popolo minuto in Napoli: lavori due approvati dall’Accademia pontaniana, Napoli, Stamp. della R. Università, 1863. V. Corrado, Cucina napoletana: Pranzi giornalieri variati ed imbanditi in 672 vivande secondo i prodotti delle stagioni, introduzione e glossario di L. Mancusi Sorrentino, Rist. anast., Napoli, Grimaldi, 2001 (ed. or. 1809). J.-L. Flandrin, Introduzione, in Storia dell’alimentazione, a cura di J.-L. Flandrin, M. Montanari, Roma, Laterza, 1997, pp. 427-448. E. Sereni, I napoletani da mangiafoglia a mangiamaccheroni. Note di storia dell’alimentazione, Napoli, Libreria Dante e Descartes, 2015 (ed. or. 1958). C. Petraccone, Bottegai e piccoli commercianti a Napoli nella prima metà del XVII secolo, in ‹‹Archivio storico per le province napoletane››, 96, 1978, p. 171-202.