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Nicola De Blasi

Il cibo e le parole, soprattutto quelle dialettali, sembrano componenti stabili della tradizione, ma sia per il cibo, sia per le parole le novità sono numerose e frequenti. Consideriamo qui come esempio il solo caso della pizza, che permette anche di sottolineare che nella stessa regione convivono usi (e parole) differenti.

La pizza oggi notissima, che nella seconda metà del secolo scorso ha fatto il giro del mondo, è tutto sommato abbastanza recente come cibo da consumare appena sfornato, in pizzeria; il nome è però molto più antico: Alinei (2009), ricordando la larghissima e antica diffusione nella cultura medio-orientale di una focaccia rotonda, schiacciata e bianca, ritiene che la sua origine risalga all’aramaico pitta che significa ‘il pane’. Da questo punto di partenza, secondo Alinei, si sarebbero snodate diverse innovazioni, sia per la tipologia del cibo, sia per il nome. L’antenata della nostra pizza potrebbe dipendere da una innovazione bizantina diffusasi in Italia meridionale. Pizza presenta però una pronuncia differente da pitta. La novità fonetica è spiegata in modi diversi: con rimando a una forma pittea (Alinei), con rinvio a un aggettivo formato a partire dal nome del gastronomo latino Apicio (da Alessio, Fanciullo-Fornaro che quindi propongono un’altra etimologia) o con l’ipotesi che la nuova pronuncia dipenda da una caratteristica fonetica di tipo longobardo (Sabatini). Se quindi è vero, come osserva Alinei, che la parola non può essere longobarda (come invece proponeva Princi Braccini 1979), in quanto la pizza non è un cibo germanico, è pur sempre possibile che pizza conservi traccia di una pronuncia germanica, visto che i Longobardi possono aver pronunciato “a modo loro” il nome di un cibo conosciuto in Italia (sulla pizza cfr. ora D’Achille 2017).

Delle pizze antiche, in breve, sappiamo solo che erano ben diverse da quella per noi usuale (che tuttavia anche oggi non è l’unico tipo esistente). Della pizza dei nostri giorni sappiamo che alla fine di maggio 1889 il pizzaiolo Raffaele Esposito, convocato alla Reggia di Capodimonte a Napoli, offrì alla Regina d’Italia  Margherita di Savoia tre pizze, una delle quali guarnita con pomodoro, mozzarella e basilico (Mattozzi 2009); è certo difficile che in quell’occasione l’Esposito si avventurasse in nuovi esperimenti. Quindi, come confermano alcuni indizi storici, la pizza con quegli ingredienti doveva essere già abituale per i Napoletani. In quell’occasione però, per il non comune intuito imprenditoriale del pizzaiolo Esposito, a quel tipo di pizza, che nei colori ricordava la bandiera italiana, fu dato il nome di «Margherita».

Già nella seconda metà del Settecento c’erano locali pubblici dotati di forno per preparare focacce (Mattozzi 2009), ma una più larga diffusione di queste botteghe si ha probabilmente ala prima metà dell’Ottocento: per esempio nel 1842 venivano richiesti i permessi per una «Trattoria e Pizzaria» alla Strada Porta Sciuscella n. 18, cioè a Port’Alba (Mattozzi 2009, p. 114); proprio a «lo pizzajolo sotto porta Sciuscella» si riferisce in seguito Eduardo Scarpetta ne Le pazzie di Carnevale (1890). In epoca postunitaria si colloca poi la prima attestazione letteraria della parola pizzeria, presente nel romanzo di Francesco Mastriani, Ciccio il pizzaiuolo ossia il Bettoliere di Borgo Loreto (del 1880). Da questo titolo è chiaro che la parola pizzaiuolo poteva risultare ostica (soprattutto a un pubblico non napoletano), tanto da richiedere la sequenza esplicativa «il pizzaiuolo ossia il bettoliere». La  stessa cosa vale per la prima apparizione nel romanzo della parola pizzeria (a p. 9 dell’edizione Bideri, 1950), spiegata in nota come «Bottega dove si cuociono e si vendono quelle briose e appetitose focacce che in Napoli si chiamano pizze».

Queste pizze verosimilmente erano simili alle attuali. Ma com’erano le pizze ricordate nei secoli precedenti? Certamente non erano destinate a consumo immediato le pizze di cui parla Basile ne Lo cunto de li cunti, né quelle ricordate in documenti del secolo X (in cui sono evocate come corrispettivo dell’affitto di un terreno); era poi con il miele quella ricordata da Iacopo Sannazaro a fine ’400 in un suo gliommero (De Blasi 1999): era cioè una pizza dolce; A questo punto è sorprendente notare che alle pizze dolci alludono ancora Eduardo Scarpetta (La Casa vecchia, 1895) e Eduardo De Filippo (in un manoscritto di Napoli milionaria! del 1945), mentre, soprattutto fuori Napoli, ancora oggi, la pizza può essere ben diversa (sin dalla parola) da quella che ha dato il nome alle moderne pizzerie. In Irpinia, per esempio, la focaccia spianata cotta nel forno (insieme con il pane) si chiama pizzillo o pizzella : questa denominazione è forse un diminutivo di pizza, ma può trattarsi anche di un derivato di pezzo, in quanto «pezzetto di pasta spianato a mo’ di focaccia» (De Blasi 1991, p. 70). Sempre in Irpinia la pizza ionna (‘bionda’), fatta con la farina di granturco (usata del resto anche altrove per pizze con diverse denominazioni), si accompagna a verdura cotta (menesta co la pizza).

L’esempio della pizza conferma che il nesso tra cibo e parole può comportare novità rilevanti nel tempo e nello spazio, poiché le abitudini alimentari, anche in una stessa regione, cambiano da una zona all’altra. Ne consegue che per il cibo, come per i dialetti (ovvero sistemi linguistici di diffusione locale derivati direttamente dal latino), occorre un’attenzione per le diversità. La «bio-diversità» è infatti un valore positivo anche in rapporto ai dialetti, laddove una fuorviante idea di tutela porta taluni a ipotizzare una illusoria uniformità linguistica dell’intera Italia meridionale continentale: questa è per esempio la prospettiva (infondata scientificamente) divulgata anche attraverso un sito dell’Unesco, secondo cui in Italia meridionale ci sarebbe un’unica lingua denominata South Italian or Neapolitan. Una convinzione del genere  porterebbe di fatto alla crisi definitiva di tutti i dialetti locali diversi dal napoletano e, di conseguenza (per restare in ambito gastronomico) alla cancellazione dei nomi dialettali locali, in nome di una esigenza di standardizzazione che, com’è noto, in Europa è molto sentita. A questo proposito è molto interessante (e coerente con la preoccupazione qui espressa) una sottolineatura di Angelo Panebianco («Corriere della sera», 18 febbraio 2017), che si riferisce alla «”furia regolamentatrice” con cui i preposti organi della Ue (Parlamento europeo incluso) da sempre si occupano di “perfezionare” — in realtà, di ingabbiare — il mercato unico europeo, continuando ad accumulare, dissennatamente, norme su norme: si tratti delle recenti disposizioni che riguardano l’imballaggio delle uova commerciabili all’interno della Ue oppure dei regolamenti — giustamente celebri, in quanto oggetti di feroci ironie — sulle dimensioni obbligatorie di certi prodotti agricoli».

L’attenzione per i cibi (e le parole) delle diverse località va in direzione opposta rispetto a una standardizzazione a tutti i costi.

Se a qualcuno venisse in mente di “mettere ordine” nella denominazione dei cibi, “proteggendo” solo alcuni cibi “certificati”, che sorte toccherebbe per esempio ai fusilli tradizionali, alle orecchiette, ai mugliatielli (involtini di interiora), alla pastiera di riso, al pastiere (o alla pastiera) con la pasta, alle pizze chiene, alle ’ntrite (nocciole tostate e infilate come una collana) eccetera? Questi cibi campani (ma non napoletani) si affiancano tuttora cibi napoletani (ma non sempre campani), dalle coviglie ai gattò, dai crocchè alla genovese: parole e cibi che richiedono altri approfondimenti e specifica attenzione.

 

Riferimenti bibliografici

  • Giovanni Alessio, Lexicon Etymologium. Supplemento ai dizionari etimologici latini e romanzi, Napoli, Arte Tipografica, 1976.
  • Mario Alinei, L’origine delle parole, Roma, Aracne, 2009.
  • Paolo D’Achille, Che pizza!, Bologna, Il mulino, 2017.
  • Luigi De Blasi, Dizionario dialettale di San Mango sul Calore (Avellino), Potenza, Il salice, 1991.
  • Franco Fanciullo – Pierpaolo Fornaro, Apicio heuretes eponimo della pizza?, in «Bollettino dell’Atlante Linguistico Italiano», XXVI (2002), pp. 57-63.
  • Antonio Mattozzi, Una storia napoletana. Pizzerie e pizzaiuoli tra Sette e Ottocento, Bra, Slow Food Editore, 2009.
  • Giuliana Princi Braccini, Etimo germanico e itinerario italiano di “pizza”, in «Archivio Glottologico Italiano», LXIV, 1979, pp. 42-89.
  • Francesco Sabatini, Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell’Italia mediana e meridionale, in Aristocrazie e società tra tradizione romano-germanica e Alto Medioevo. Atti del Convegno internazionale di Studi (Cimitile-Santa Maria Capua Vetere, 14-15 giugno 2012), a cura di Carlo Ebanista e Marcello Rotili, Cimitile, Tavolario Edizioni, 2015, pp. 353-441.