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Giuliana Vitale

Focalizzando l’attenzione sulla Napoli aragonese emerge con forte evidenza come al consumo del cibo venisse attribuita una valenza talmente complessa da costituire addirittura materia di riflessione all’interno di quella parte dell’etica che nell’ opera del Pontano ha per oggetto il danaro. Se in vari passi dei suoi trattati sulle virtù fondamentali alle quali guardare come guida di azione virtuosa, non mancò di fare riferimento con vari approcci tematici all’uso del cibo, dedicò addirittura il quinto dei trattati  sulle “virtù sociali, e cioè il De conviventia,  alla pratica conviviale che veniva da lui celebrata come efficace strumento di comunicazione sociale, asserendo “amicitia hanc vitae coenarumque consuetudinem postulet, quem maiores nostri convictum a convivendo deduxere”, suggerendo inoltre di definire “inconviventia”, che egli ritiene un “vitium”, l’atteggiamento di chi rifugge dalla “conviventia”[1]. Nel dedicare questo scritto all’amico Giovanni Pardo[2], spiegando le ragioni che gli avevano suggerito di sceglierlo come destinatario dell’opera, si richiamava a due componenti a suo avviso fondamentali che saldavano il loro rapporto umano: condivisione di studi, ma anche di consuetudini di vita quale il trattenersi insieme a mangiare a tavola[3]. Il rifuggire da questa pratica era a suo avviso imputabile all’avaritia, ma altrettanto riprovevole era da considerarsi l’eccesso opposto, l’ingordigia, che illustrava con una serie di esemplificazioni tratte da una ricca aneddotica. Proseguendo nell’analisi della varietà tipologica dei banchetti, distingueva quelli offerti da re e principi al popolo per conquistarsene il favore[4] e quelli organizzati per mostrare ad ospiti di riguardo e stranieri il proprio splendor.

Se connotazione dei primi era l’abbondanza, la caratteristica dei secondi, disposti “solius splendoris gratia”, doveva consistere essenzialmente nella squisitezza delle preparazioni culinarie, nella loro varietà anche esotica, pur rispettando comunque la moderazione, nell’eleganza degli apparati, nella cura e nella piacevolezza dell’ambiente.

Un uso praticato alla corte aragonese e molto apprezzato dal Pontano era quello di far precedere l’ingresso delle vivande nella sala del convito dal suono di trombe e flauti. La musica -egli affermava-  assorbendo l’attenzione dei convitati nell’ascolto, non solo li dilettava, ma li induceva anche al silenzio, evitando quindi che si verificasse il chiasso in cui di solito si svolgevano i banchetti. Notazione che efficacemente lascia intravedere quale confusione facesse da sfondo a tali affollati raduni! La teatralità scenografica dei rituali conviviali regi è frequentemente descritta nelle corrispondenze degli oratori e nelle cronache e la loro importanza e quella delle figure che s’impegnavano nella loro organizzazione sono indicative anche della funzione politica e di propaganda da essi svolta, sia attraverso la tipologia delle preparazioni culinarie, sia con la forma della loro presentazione agli ospiti, sia ovviamente attraverso la disposizione di questi a tavola[5].

L’offerta abbondante di cibo e di vino, come si è accennato, costituiva una delle pratiche più comuni e vistose messe in atto da sovrani e principi per sollecitare la festosa partecipazione popolare ad occasioni quali le visite di principi stranieri, ma avevano anche lo scopo di dimostrare a questi ed al loro seguito l’opulenza del Regno. Numerose le narrazioni che enfatizzavano tali manifestazioni pubbliche, trasferendone talora su di un piano iperbolico alcuni aspetti, quali ad esempio la creazione di fontane che distribuivano vino o il numero dei partecipanti[6].

Se le occasioni d’incontri di grande interesse politico venivano solennizzatie con splendidi banchetti allestiti in onore di principi e membri della corte, nonché con copiose distribuzioni di cibo alle popolazioni, le feste nuziali costituivano per tutti occasione di rappresentazione dello status della famiglia[7].

Nel De conviventia Pontano osservava che, data l’importanza sociale del matrimonio, la sua celebrazione ed i connessi festeggiamenti, benché non sempre si svolgessero in forma pubblica come per i re e i principi, ma tra amici e familiari, dovevano comunque uniformarsi alla consuetudine, che richiedeva “splendor” anche per la gente comune, in modo da evitare che coloro che organizzavano i festeggiamenti fossero colpiti da “avaritiae suspitione”[8].

Se queste erano le pratiche sociali e le indicazioni alle quali dovevano attenersi le convenzioni di “etichetta politica”, da parte sua Tristano Caracciolo non si stancava di dettare ammaestramenti ispirati a rigore suntuario e moderazione nei comportamenti etico-politici e sociali, ma anche igienico-sanitari; così, ad esempio, nel Plura bene vivendi praecepta ad filium, tra i le esortazioni alla parsimonia, il consiglio di tenere a freno l’ingluvies[9]: un vizio che poteva coprire di vergogna persone sia nobili che di modestissima condizione. A suo avviso  abbandonarsi alla gola era un comportamento indegno di persone razionali, poteva condurre alla dissipazione del patrimonio, debilitava l’organismo, lo deformava, procurava vecchiaia e morte precoci.  Riflessioni suggerite certo anche dall’esperienza della crisi che attraversava la piccola e media nobiltà napoletana di Seggio, alla quale egli apparteneva; per la cessazione del ruolo svolto da Napoli come capitale (problematiche che egli descrive nel De statu civitatis) molte fonti di reddito del suo ceto (e non solo di quello) si erano andate esaurendo o riducendo; tra queste gli affitti d’immobili, che costituivano un’entrata della nobiltà urbana e le attività connesse con la vita della corte, ecc. Per la verità il modello che egli suggerisce sembra riecheggiare enunciati lontani nel tempo, se guardiamo alle norme elaborate proprio dalla nobiltà del Seggio di Capuana con i provvedimenti del 1290[10].

Il moralismo suntuario del Caracciolo, che investiva anche le spese per il cibo, trovava espressione in forma molto dettagliata e severa nella Disceptatio quaedam priscorum cum iunioribus in moribus suorum temporum; in questo scritto tra le critiche alle varie manifestazioni della vita privata e sociale, che secondo Caracciolo nella contemporaneità si differenziavano negativamente dalle pratiche antiche, corrompendole e provocando danni morali, fisici ed economici, trovavano ampio spazio anche le questioni  riguardanti gli usi alimentari.Il menu frugale dei pranzi nuziali del passato prevedeva- egli sottolineava-  soltanto due piatti, un arrosto ed un bollito accompagnati dal loro sugo e per le “secundae mensae” “ovatos casaceos simplices ne saccaro quidem inspersos”. Le abitudini del passato erano un rimprovero evidente nei confronti di quelle contemporanee

Uno dei prodotti che caratterizzavano le preparazioni offerte in questa parte finale dei conviti, era lo zucchero: oggetto di critiche per il dispendio che il suo abuso comportava e per i danni che procurava alla salute[11]. Lo “zuccharo”, proveniente dai Paesi Orientali[12], merce rara e costosa, che pochi si potevano permettere di acquistare, era utilizzato- veniva sottolineato-  per portate che procuravano il piacere della gola, ma anche degli occhi, con fantasiose creazioni, che indubbiamente costituivano nei conviti uno dei tanti segni di prestigio dell’ospite.

Davvero singolare e indicativo, sia dei comportamenti diffusi nelle corti, sia della valenza simbolica talora attribuita a tali preparazioni, è un episodio  riferito dagli oratori milanesi a Francesco Sforza verificatosi durante un affollato banchetto offerto dal Magnanimo il 26 dicembre 1454 [13].

 

Bibliografia

  • ASMn, Archivio Gonzaga, Busta 805;
  • ASMi, Potenze estere, Corrispondenza (copia)
  • Caracciolo, Opuscoli storici editi ed inediti, a cura di G. Paladino, Bologna, 1934-1935, in Muratori, RIS 2, t. XXII, parte I.
  • Tristani  Caraccioli Plura bene vivendi praecepta ad filium Disceptatio quaedam priscorum cum junioribus de moribus suorum temporum ( nelle trascrizioni curatene da L. Monti Sabia)
  • De Ferrariis, (detto il Galateo), De educatione, in La Giapigia e vari opuscoli, vol. I, Lecce1867 (Collana di opere scelte edite e inedite di scrittori di Terra d’Otranto diretta da S. Grande)
  • Del Giudice, Una legge suntuaria inedita del 1290, in AACP, XVI, 2, 1886
  • Di Costanzo, Istoria del Regno di Napoli, Napoli, Ed. Gravier, 1769, pp. 522-523.
  • Dispacci sforzeschi da Napoli, I, 1444-2 luglio 1458, a cura di F. Senatore, Salerno Carlone Editore, 1997,
  • Pontano, I trattati delle virtù sociali. De liberalitate, De Beneficentia, De Magnificentia, De Splendore, De Conviventia. Introduzione, testo e note a cura di F. Tateo, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1965,
  • G.Vitale, Modelli culturali nobiliari nella Napoli aragonese, Carlone Ed., 2002.
  • G.Vitale, Alla corte aragonese di Napoli: un percorso tra cerimonialità liturgica e vita di corte, in ASPN, 2014.

[1] G. Pontano, I trattati delle virtù sociali. Introduzione, testo e note a cura di F. Tateo, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1965, I, p. 142.

[2] Un aragonese che fece parte della Cancelleria regia ed entrò nel circolo pontaniano nel 1486.

[3] Nel Prologus del De Conviventia (p. 141)  dichiara:”Tametsi, Ioannes Parde, hominem homini natura conciliat, ad hanc tamen conciliationem duae cum primis res mihi videntur plurimum conferre, eorundem scilicet studiorum societas consuetudoque convivendi”.

[4] Pontano (De conviventia, p. 149) cita come esempio l’abbondante distribuzione di cibo a nobiltà e popolo che annualmente in giorni prestabiliti nelle adiacenze della chiesa dell’Incoronata i sovrani napoletani effettuavano a scopo di propaganda politica; un uso che fu mantenuto da re Alfonso con grande impiego di mezzi.

[5] V. ad esempio: Dispacci sforzeschi da Napoli, I, 1444-2 luglio 1458, a cura di F. Senatore, Salerno Carlone Editore, 1997, p. 1; ASMn, Archivio Gonzaga, Busta 805; ASMi, Potenze estere, Corrispondenza (copia) , v. anche G. Vitale, Alla corte aragonese di Napoli. Un percorso tra cerimonialità liturgica e vita di corte, in ASPN, 2014.

[6] A. Di Costanzo, Istoria del Regno di Napoli, Napoli, Ed. Gravier, 1769, pp. 522-523. Anche Pontano nel De magnificentia, fa riferimento alla grandiosità dell’evento (anche lui  accenna alle “fontes e vario vini genere passim ad litus facti “, anche se riferisce differenti cifre di partecipanti; infine annota “Huc accedit quod, qui spectandi grata convenerant, plurimi mortales honerati esculentis plurimorum dierum domum redierunt”.

[7] Nel De magnificentia  (pp. 113-114) Pontano poneva la domanda retorica:”Sed reges omittamus: quis est e media plebe homuntio, qui non aliquo apparatu nuptias celebret? Quo magis videre oportet eum, qui facultates suppetunt, non solum ne quo modo sordidum, verum ut quam potest magnificum sese in illis agat.”.

[8] De conviventia, III, p. 149.

[9] Plura bene vivendi praecepta ad filium.

[10] Del Giudice, Una legge suntuaria inedita del 1290, in AACP, XVI, 2, 1886, pp. 158 ss e Vitale, Modelli culturali nobiliari nella Napoli aragonese, Carlone Ed., 2002, pp. 18 ss.

[11] V. la cit. Disceptatio, del Caracciolo.

[12] Per notizie sull’importazione di zucchero per conto della Corona angioina nella seconda metà del Duecento (v. il mio Le secrezie nella prima età angioina, di prossima pubblicazione).

[13] Dispacci sforzeschi da Napoli, I, 1444-2 luglio 1458, a cura di F. Senatore, Carlone Editore, 1997, docc.74 e 75