Maria Castellano
La documentazione esistente relativa ad i consumi alimentari a Napoli è decisamente sbilanciata a favore delle classi dominanti rispetto a quella degli artigiani e ancor più a quella dei pauperes, tuttavia una fonte fiscale come le Assise, compilate tra il 1305 ed il 1306[1], può essere utile per tentare di individuare i prodotti alimentari ed i luoghi di vendita all’interno della città.
Approvvigionare Napoli, nel periodo angioino, con i suoi circa 60.000 abitanti, è un problema non da poco; da un lato bisogna provvedere a che i prodotti siano sempre disponibili sul mercato, dall’altro è necessario che i prezzi di vendita siano controllati e mantenuti in un buon rapporto qualità prezzo. Nel primo caso l’autorità regia affida ad un gabelloto l’appalto annuale per provvedere al costante flusso di alimenti per il consumo quotidiano; nel secondo è una commissione formata a partire da questo periodo, dal giustiziere dello Studium napoletano e tre giudici eletti dagli studenti, cui in seguito si aggiungeranno sei eletti dai seggi, che provvede annualmente a stabilire i prezzi attraverso le assise[2].
In una sorta di magazzini comunali fuori le mura cittadine tra il Muricino e il mercato nuovo, sono concentrate le attività relative alla panificazione e alla macellazione delle carni, prodotti sottoposti al controllo dell’amministrazione regia in quanto soggetti a gabella che da qui verranno smerciati in città. Nella domus Panis Curia si effettua la vendita all’ingrosso e la conservazione del pane mentre poco lontano è praticata la macellazione in una struttura risistemata nel 1270, denominata Buczaria.
Infine, la vendita all’ingrosso del pesce appena pescato è praticata sulla spiaggia del Moricino presso la Pietra del pesce, dove approdano i pescatori con le loro barche e confluiscono i mercanti di pesce tanto di notte che di giorno. Poiché anche il pesce è sottoposto a gabella, lo si può vendere solo qui, sulla spiaggia liberamente e senza onere, tranne una somma fissa versata mensilmente da ciascun pescatore.
I prodotti sono poi portati ogni giorno nelle botteghe, esposti sui banchi di vendita per soddisfare le necessità alimentari di tutti gli abitanti. Ciascuna vende un prodotto specifico pur se indicate nella documentazione come apothece, tranne che le macellerie (chianghe).
L’approvvigionamento del frumento e dell’orzo diventa la principale preoccupazione solo in caso di carestie e il controllo delle esportazioni frumentarie, l’istituzione di un calmiere dei prezzi e le disposizioni contro l’agiottaggio dei viveri servono unicamente a fronteggiare la situazione contigente.
Il pane[3] è in genere prodotto con il grano mentre l’orzo e il miglio sono utilizzati, per necessità, nei periodi di carestia. Esistono diverse qualità di pane, secondo il grado di finezza della farina o la mescolanza con altri cereali; la qualità e la pezzatura varia in funzione del tipo di consumatore. Il pane deve esser venduto per assise ad un prezzo fisso unitario, ciò che varia è la qualità della farina, usata pura o mischiata con altri tipi inferiori in modo tale che pur non variando il prezzo diminuisce il peso unitario; un tipo di pane piuttosto scadente, impastato con l’aggiunta di cruschello e crusca, è mangiato dai popolani.
Un altro prodotto preparato dai panettieri è il biscotto, un tipo di galletta che si presta ad esser conservato per alcuni mesi e quindi molto usato come base del vitto dei marinai imbarcati e da chi si poneva in viaggio.
Ma nelle botteghe del Mercato vecchio si devono vendere anche altri prodotti alimentari destinati all’uso quotidiano, tra questi certamente il formaggio, fresco o stagionato di capra, pecora o mucca, poco usato a corte se non come legante o grattugiato per la preparazione di alcune pietanze, era certamente consumato da tutti gli altri ceti cittadini.
I venditori di pollame e uova e i contadini dei dintorni devono portare le bestie alla pulleria pubblica della città e solo lì possono vendere il pollame vivo: capponi pollastri, galline e paperi.
Ci sono poi le botteghe riservate alla vendita dei prodotti salati e secchi come la carne, il buon prosciutto e il più raffinato lardo prodotto in città. In altre si acquistano sardine e alici conservate in barili e parti di tonno in salamoia.
I condimenti in vendita più usati sono l’olio di due qualità, la migliore chiaro ed odorifero e una seconda scelta, e il lardo un po’ più caro anche il tipo meno buono, mentre la più costosa è la sugna fresca raffinata.
Tra i diversi tipi di carne quella di castrato è la più pregiata, seguita da quella delle vitelle di Sorrento e di Capri e da quella di maiale. Di minor prezzo sono le carni di vacca giovane, di giumenta, di capra e pecora; infine, le più grossolane carni di scrofa e di vacca di minor qualità. Il consumo di carne è generalizzato, anche se non era esteso a tutta la popolazione, i più poveri dovranno accontentarsi dei pezzi peggiori come la testa ed i piedi di porco venduti a pezzo non a peso.
Un prodotto di largo consumo è il pesce, alimento base nei numerosi giorni di astinenza. Da diverse località del golfo di Napoli arrivano barche con una gran varietà di pesce. Attraccano davanti alla Pietra del pesce; qui convengono anche i pescatori che avevano gettato le loro reti davanti Posillipo.
Il pesce è acquistato a buon mercato dai pescivendoli che lo rivenderanno in città per assisa, in qualche caso con un ricarico anche del 50%. Le specie più pregiate sono vendute ad un prezzo simile a quello della carne migliore, ma una buona scelta c’è anche per la varietà di pesce più a buon mercato. Le alici piccole e i fragagli di qualunque pesce sono alla portata dei popolani. Quest’ultima qualità non subisce neanche il sovrapprezzo di un grano, da applicare nei giorni di digiuno. Nell’assisa un elenco a parte riguarda i pesci provenienti da Licola e lago Patria; l’unica specie tra quelle d’acqua dolce è quella delle anguille, grosse e piccole.
Ma forse il prodotto di più largo consumo sia tra il ceto nobile che quello artigiano e popolano è rappresentato dalle verdure e dai legumi, entrambi non sottoposti ad assise. Coltivati certamente sia nei numerosi orti, anche di dimensioni ridotte, e giardini che sopravvivevano negli spazi chiusi tra i palazzi e i vicoli cittadini che negli spazi extraurbani, si acquistano presso gli ortolani e i venditori ambulanti che girano per la città con gerle e cesti.
Il quadro tracciato a grandi linee non può che lasciare ampie zone d’ombra specie nei confronti della popolazione cittadina più disagiata.
Bibliografia
- Minieri Riccio, Alcuni fatti riguardanti Carlo I d’Angiò dal 6 agosto 1252 al 30 dicembre 1270, Napoli 1874.
- Minieri Riccio, Studi storici fatti sugli 84 registri angioini, Napoli 1876.
- Minieri Riccio, Notizie storiche tratte da 62 registri angioini dell’ Archivio di nStato di Napoli, Napoli 1877.
- M. Monti, Da Carlo I a Roberto d’Angiò. Ricerche e documenti in <<Archivio Storico delle Provincie Napoletane>>, XIX (1933).
- M. Monti, Le corporazioni nel regno di Sicilia prima del 1347, estratto dagli <<Annali del Seminario Giuridico Economico della R. Università di Bari, VIII, fs. I (1935).
- De Frede Da Carlo I a Giovanna I 1263-1382 in <<Storia di Napoli>> II, Napoli 1975.
- Ascione, F. Negri, I <<capituli del ben vivere>> a Napoli nel Cinquecento in <<La famiglia e la vita quotidiana in Europa dal ‘400 al ‘600. Fonti e problemi. Atti del convegno internazionale Milano 1-4 dic. 1983>>, Roma 1986.
- Capone, La regione <<augustale>> dall’XI al XIV secolo e Documenti sull’area di S. Lorenzo Maggiore tra Quattro e Cinquecento, in <<Ricerche sul Medioevo napoletano>> a cura di A. Leone, Napoli 1996.
- Vitolo, La piazza del Mercato e l’ospedale di S. Eligio in G. Vitolo R. Di Meglio, Napoli angioino.aragonese. Confraternite ospedali dinamiche politico-sociali, Salerno 2003,69-70.
- Castellano, Dalle cucine alla tavola del re. Modelli alimentari alla corte angioina di Napoli in <<Rivista di Storia dell’Agricoltura>>, XLVII (2007).
[1] G. M. Monti, Da Carlo I, pp. 84-89 e Monti, Le corporazioni nel regno, pp.16-21.
[2] Sull’organizzazione del sistema cfr. C. De Frede Da Carlo I a Giovanna I 1263-1382 in <<Storia di Napoli>> II, Napoli 1975, pp. 63-64.
[3] I prodotti alimentari elencati di seguito sono tutti citati in Monti, Da Carlo I, pp.84-89.