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Guido Pensato

1. Qualche domanda

Non si svolge qui il tema al quale il titolo allude; solo, si pongono domande ad esso sottese. “Tema e svolgimento” rappresentano una sorta di sintesi a priori delle questioni che dovrebbero costituire le tracce di una auspicabile ricerca sul rapporto di una provincia del Regno di Napoli, attraverso la sua Capitale, con il suo potere di attrazione e con la sua incontestata egemonia in ogni campo: compresi quelli dell’alimentazione e della cucina, fatti centrali del loro sistema economico-sociale e dell’apparato simbolico che potere ed egemonia hanno rappresentato e sintetizzato, fino ad oggi, ed oggi più che mai.

  • In quale misura e come la cucina di Napoli ha influito su quella foggiana e della “provincia di Capitanata”?
  • In quale misura ne ha modellato i caratteri? Fino al punto da non consentire l’emergere di un significativo blocco di caratteri e connotati, forti, originali e specifici?
  • È possibile individuare ed elencare le preparazioni nelle quali quell’influenza o addirittura il ricalco o la sovrapposizione sono evidenti?

Si tratta di domande evidentemente per lo più retoriche, quantomeno per quel che riguarda i secoli XVIII e XIX, e le fasi successive, decisivi, perché caratterizzate dalla persistenza di legami storici e culturali tali da poter escludere che vi sia stata un’area della vita della società locale e dei singoli, che possa essersi sottratta a quella che fu una vera e propria egemonia: forte e ampiamente riconosciuta. Interrogativi che non hanno costituito, forse proprio perché scontati, una spinta sufficiente per ricerche specifiche e mirate, anche per la troppo duratura sottovalutazione storica e culturale, in particolare, della tematica “cucina”

Quali che siano le ipotesi di partenza di una prima, provvisoria traccia, alcuni dati di fatto costituiscono il fondale inconfutabile, imprescindibile e ovvio.

La Napoli settecentesca e di buona parte dell’Ottocento è una metropoli e una capitale che ha alle spalle una storia plurisecolare ricca e complessissima: centrale anche per quel che riguarda cucina, gastronomia e letteratura corrispondente.

Di tale ruolo esiste uno straordinario “incipit simbolico”, rappresentato dal Liber de coquina, di “anonimo trecentesco della corte angioina”, “il ‘meno provinciale’ dei trattati di gastronomia circolanti in Italia nel XIV secolo”[1]; un titolo che non resta isolato e al quale seguono, fino ai nostri giorni, Lo scalco alla moderna, del marchigiano Antonio Latini, operante a Napoli, come il pugliese Vincenzo Corrado, autore de Il cuoco Galante; e, quindi, Ippolito Cavalcanti e la sua Cucina teorico-pratica. Si tratta di un trittico che rappresenta “l’aristocrazia della trattatistica gastronomica italiana”[2], segnale di quella egemonia che è  registrata nella produzione editoriale e della quale vi è solida conferma nel B.IN.G., Bibliographie Internationelle de Gastronomie, che copre un arco dal XIV al XIX secolo. Scorrendolo nell’intero periodo di copertura, la voce “Napoli” si colloca accanto a Roma e Bologna (150/200 titoli). L’Ottocento vi è attestato come il secolo d’oro dell’editoria gastronomica partenopea (affiancando Milano)[3]. Escluse le edizioni del Novecento dai repertori retrospettivi, non si può non rilevare – accanto al dilagare di una massa di ricettari puramente elencativi e di opere divulgative o “promozionali” – una produzione editoriale, per questo secolo e per i primi decenni del XXI, che si pone nel solco di quella grande tradizione, testimoniando che, anche attraverso Napoli, passa il definitivo accreditamento culturale e scientifico dell’oggetto “cucina”, per il quale storici, filosofi, antropologi e ricercatori – da Massimo Montanari a Tullio Gregory, Piero Camporesi, Alberto Capatti, Carlo Petrini – hanno speso e generalizzato nell’opinione collettiva, ricerca, sapere e autorevolezza. Al di là del dato quantitativo, proprio Napoli segnala da decenni titoli di grande rilevanza, che battono in resta la congerie di luoghi comuni che hanno circondato anche la cucina napoletana, da tempo spazzati via da autori e gastronomi “militanti”, quali Alberto Consiglio, Sebastiana Papa, Marinella Penta De Peppo, Jeanne Caròla Francesconi e così via, fino ad Antonio Tubelli ed altri ancora. Si è trattato di un’opera di costruzione, collegata ad una pratica cucinaria attestata e proseguita ben oltre Pellegrino Artusi e la sua monca ricognizione geo-gastronomica d’Italia, che, (fermi restando gli straordinari meriti storici, linguistici e gastronomici dell’operazione) colpì Napoli e tutto il Mezzogiorno: qualche ricetta, sulle 790 e citazioni aggettivali del tipo “napoletana” o “alla napoletana”. Una lacuna, quella dell’artusiana Scienza in cucina, attribuita dai critici a cause diverse – comprese le difficoltà logistiche e di comunicazione, che affliggevano il Sud del paese, e la conseguente insufficiente rete di “corrispondenti” allestita per la redazione dell’opera – e che restano confermate anche alla luce della rigorosa analisi condotta sul tema[4], e che si rivelò in contrasto con il peso crescente, che Napoli andava assumendo ed ha oggi nella pratica gastronomica familiare e professionale e nella letteratura di settore[5].

 

2. Foggia, provincia di Napoli

Nonostante la totale assenza di indagini e riflessioni sul tema e al di là della concreta praticabilità di un’analisi in parallelo e comparativa tra i due “ricettari”, non si può non dare per scontata una influenza decisa della cucina napoletana su quella della Capitanata, in presenza di un fenomeno come la transumanza, che aveva al centro il Tavoliere delle Puglie e di un’istituzione come la Dogana della Mena delle pecore, con sede in Foggia e direttamente legata alla Corona. L’uno e l’altra influirono su tutti gli aspetti e i soggetti della società locale, a partire proprio dal cibo e dalla cucina, universi governati da concrete pratiche di produzione, commercializzazione e consumo, ma anche da complessi ed espliciti valori e significati simbolici e psicologici. Che il rapporto tra la capitale e la provincia sia stato particolarmente stringente è scritto nei fatti, riguardando soggetti collettivi, società, comunità, sistemi di potere diversi: entità, nelle due aree in relazione, non confrontabili per dimensioni e caratteri sociali e antropologici. Ed è stata questa disparità a rappresentare Napoli e il suo universo, agli occhi, alla quotidianità e all’immaginario dei ceti dirigenti e popolari di tutta la Capitanata, stretti in una dimensione agrario-rurale e periferica, un modello di riferimento totalizzante, capace di sollecitare la spinta ad assimilarsi ad una identità forte, aggiuntiva, mai vissuta come antagonistica. La componente alimentare e culinaria non poteva non entrare a far parte di una mitologia e di una mitografia che, soprattutto per i ceti proprietari e per la piccola borghesia delle professioni dei centri piccoli e grandi, garantivano l’affaccio su un universo simbolico e una dimensione urbana e cosmopolita, altrimenti inattingibile. Una forma di partecipazione al potere resa credibile anche dalla pratica – in uso, presso i foggiani, fino a tutta la prima metà del secolo scorso –  di “metter su casa a Napoli”, partendo da disponibilità economiche garantite dalle dimensioni di un latifondo sconosciute, per esempio, all’area salentina, che, infatti, ha optato per una prevalente residenzialità nei luoghi d’origine (Saverio Russo) e, di conseguenza, “garantendosi” un forte tratto identitario, anche in cucina.

Di fronte al potere di attrazione di Napoli, alla sua capacità di ricondurre sotto il proprio “marchio identitario d’origine” ogni prodotto, ogni materia prima e ogni preparazione di cucina, appare tuttavia problematica un’operazione di affiancamento e di comparazione dei ricettari di Napoli e Foggia, al fine di discernere le influenze reciproche, le consonanze, i piatti ricalcati e trasmessi, le assimilazioni e le differenze; che hanno – e questo è certo – concorso a costruire tratti fondamentali di quello della Capitanata. Caratteri che si configurano, ineluttabilmente, come parte di un legame di natura storica, sociale e culturale più generale, accettata, perfino esibita, perché capace di dare corpo ad una identità vasta, alta e riconosciuta, ben oltre la dimensione locale; ad una mitologia, di cui la componente culinaria è parte non irrilevante. Non sorprende constatare che tale processo di assimilazione e identificazione sul versante alimentare e culinario sia avvenuto nei fatti e nella pratica quotidiana; che sia avvenuto, cioè, come avviene spesso nei comportamenti alimentari, “spontaneamente”, senza un controllo consapevole dei meccanismi e delle motivazioni; che, insomma, l’appropriazione della parte simbolica e “poetica” dell’universo mitologico di riferimento, non si sia trasformato mai in una mitografia, in una sistemazione razionale, consapevole delle sue componenti. Ed è forse questa la ragione per la quale, né studiosi, né cultori e appassionati hanno mai sistematicamente affrontato il tema del riconoscimento delle “presenze napoletane” nei ricettari e nelle pratiche cucinarie dei foggiani; trattandosi, peraltro, di operazione complessa, come detto, non solo perché relativa ai versanti “invisibili” della costruzione egemonica, ma anche perché essi si sono tradotti in una disparità degli universi documentari e delle fonti, tale da rendere ardua la comparazione, se non ai fini di una conferma del già noto. Basti pensare che, se il medievale Liber de coquina della corte aragonese può essere utilizzato come pietra angolare e punto di partenza della letteratura culinaria italiana e napoletana; se il fatto che Foggia “appartenga” a lungo a Napoli, quasi come articolazione, non solo del suo territorio, ma anche delle sue funzioni e delle relative “qualità”, non appare mai come un dato da discutere, risulterà spiegabile anche l’inesistenza di una letteratura di settore autonoma, “indigena”, perché non fa che confermare quella dipendenza, sia nella elaborazione intellettuale e professionale, sia nella pratica cucinaria. Si dovranno, infatti, attendere gli anni Settanta del ‘900, per registrare l’avvio di un’attività editoriale dedicata al tema della “cucina foggiana” e, successivamente, del Gargano e di singole sub-aree. Fenomeno, peraltro, che non si accompagna ad un esplicito riferimento e riconoscimento  – di una matrice culinaria – napoletana appunto – storicamente accertata e praticata: vuoi perché data, forse, per scontata, vuoi perché prende le mosse in una fase, nella quale è in atto, in coincidenza con la nascita dell’istituto regionale e la ricostruzione di una identità unitaria sul piano storico-culturale, oltre che amministrativo, delle “Puglie”.

D’altro canto, proprio la funzione assegnata a Foggia e alla Capitanata, attraverso il Tribunale della Dogana, nell’ambito del sistema della transumanza, sommata alla dislocazione geograficamente e strategicamente “pluriconfinaria” e “di transito”, definisce, anche sul versante dell’alimentazione, i caratteri forti e una identità “meticcia”, composita, che ne costituiscono il tratto identitario originale e che, nel contempo, riecheggiano l’universo culinario della capitale: il tutto, come ovvio, in una scala assolutamente ridotta, per dimensioni e complessità, mancando (nella società e sulla tavola foggiana) i versanti e gli “ingredienti” di un’aristocrazia e di un cosmopolitismo, che alimentano il ribollire di scambi (non è la cucina, per antonomasia, il luogo della mescolanza e dello scambio?) in orizzontale, all’interno di un territorio vastissimo e diversificato; e in verticale, protagonista un popolo napoletano o napoletanizzato, numerosissimo e “per condizione e definizione” costantemente impegnato nell’esercizio di “arrangiare un pasto”.

Anche per quel che riguarda la cucina popolare, ferme restando le sostanziali differenze tra l’area urbana della capitale e quella agro-pastorale della provincia di Capitanata, si possono, tuttavia, rilevare coincidenze, sincretismi, sovrapposizioni riconducibili ad una comune “geografia della necessità e dei bisogni”, strettamente legata a quella ambientale, fisica ed economica. Mentre nella borghesia proprietaria e delle professioni della provincia foggiana, il modello si impone, anche quando non ne realizza compiutamente le forme, il livello e le qualità. Ma soprattutto quando attinge piani rilevanti di elaborazione e intellettuale e tecnica della materia gastronomica. Ed è accaduto. Allo stato delle conoscenze, in un solo caso, ma rilevantissimo. Quello di Giacinto Volpe, autore di un settecentesco trattato-ricettario di cucina e pasticceria napoletane, rimasto tuttora, inspiegabilmente e malauguratamente, inedito. Si tratta della conferma del ruolo di Napoli come centro di elaborazione anche di una cultura gastronomica, alla quale concorrevano personalità provenienti dalle diverse aree del Regno; dal pugliese (di Oria) Vincenzo Corrado, che si fa napoletano residente e cosmopolita, al foggiano (di Sant’Agata di Puglia), Giacinto Volpe, che tiene casa a Napoli, ma non abbandona mai i luoghi d’origine, dove torna regolarmente per tutta la vita, attestando un legame che manifesta anche riservandosi di accogliere nell’opera ricette pugliesi, che, tuttavia, non figurano nel manoscritto[6]

Sono forse, proprio la figura di Giacinto Volpe e il suo manoscritto, a lungo ignoto e “inutilmente ritrovato”; e gli stessi spazi lasciati vuoti, a sintetizzare simbolicamente lo stato della ricerca  – poco più che nascente – sul tema di questo contributo; che attende una sistematica ricognizione delle fonti relative al segmento finale – le preparazioni cucinarie – della filiera alimentare, la puntuale comparazione dei ricettari e l’attivazione di una rete di interviste-questionari tra soggetti tuttora interessati e praticanti. Una modalità, quest’ultima, sperimentata, nell’arco di vent’anni, da chi scrive, ma che richiede impegno e risorse che vanno ben al di là di quelle individualmente disponibili.

 

mangiare è il serpente infinito

mangiare è il serpente infinito/di nome fame/un vizio onesto giusto//
mangiare è l’arte incombente/di dire vivere raccontare:/i fatti della pentola e del cucchiaio:/sapori ardori odori amori rumori/odi malattie idiosincrasie/le malie l’ingordigia la pappagorgia/la mollezza la morigeratezza/la premura la paura/la speranza l’astinenza/la bellezza la crapula/la sfrenatezza la bruttezza/la fragranza del male/i pesci del mare/lo splendore del bene/delle sirene//
l’inquietudine del pane/l’irrequieta lentezza/della chiocciola/l’immacolata rettitudine/della tabula/il docile epitalamio/del convivio//
la mens sacra del dio/la mens sana dell’io/dell’io in corpore vili/del cibo celeste/che tira i fili/di quello mortale/tra pene e barili//
di quello di Foggia/povera e ricca pentola partenopea/che annida un’aiuola/di pasta puglie e verdure/una cucina creatura/di stenti perdenti/di lussi transeunti/di lamenti succulenti/di ridenti e avvincenti/cerimonie querimonie/di penuria di carni/di moria di agnelli/di eccezioni atroci di porci/di soffritti e gomitoli di budelli//
una cucina vicina/come silenzio da anima piena/da viscere sgombre/senza ombre/da colpa/da polpa[7]

 

Bibliografia essenziale

Giovanni Nino Arbusti, La cucina garganica, Firenze 1988; L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola da XIV al XIX secolo, a cura di Emilio Faccioli, Torino 1987; Ippolito Cavalcanti, Cucina teorico-pratica, a cura di Jeremy Parzen, Milano 2002; Alberto Consiglio, Sentimento del gusto ovvero della cucina napoletana, Milano 1957; Vincenzo Corrado, Del cibo pitagorico ovvero erbaceo, Donzelli 2001; Vincenzo Corrado, Il cuoco galante, Roma 1972; Nardino De Meo, Paste e verdure della Daunia, Foggia 1973; Antonio Edoardo Foscarini, Cucina popolare ed aristocratica in Terra d’Otranto, Lecce 1999; Jeanne Caròla Francesconi, La cucina napoletana, Roma 1992; Mario Frèjaville, La cucina familiare italiana, Firenze 1977; Anna Gosetti Della Salda, Le ricette regionali italiane, Milano 1967; Guido Pensato, Il Tavoliere imbandito. La cucina della provincia di Foggia tra Gargano e Appennino Dauno, Foggia 2002; Guido Pensato, L’identità culinaria, in Capitanata. I segni della storia, a cura di Saverio Russo, Foggia 2016, pp. 111-135; Guido Pensato e Saverio Russo, Le carte in tavola. Alimentazione e cucina in Capitanata. Materiali, Foggia 2005; Marinella Penta De Peppo, L’arte della cucina secondo la tradizione napoletana, Milano 1994; Luigi Sada, La cucina pugliese, Firenze 1988; Luigi Sada, Cucina pugliese alla poverella, Foggia 1991; Angelina Stanzano e Laura Santoro, Puglia. La tradizione in cucina, Fasano 1991; Antonio Tubelli, La cucina napoletana, Napoli-Roma 2010

[1] L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati sulla civiltà della tavola da XIV al XIX secolo, a cura di Emilio Faccioli, Torino 1987, p.20.

[2] Guido Pensato e Rino Pensato, Tra Napoli e Foggia. Egemonia, identità, riconoscibilità. Per un itinerario di ricerca, in: Guido Pensato e Saverio Russo, Le carte in tavola. Alimentazione e cucina in Capitanata. Materiali, Foggia 2005, pp. 109-152.

[3] ibidem

[4]Alberto Capatti, L’eredità di Artusi e le cucine regionali, in Mangiare meridiano. Le culture alimentari di Calabria e Basilicata, a cura di Vito Teti, Cosenza 1996, p. 209.

[5] Un segnale, indiretto e generico quanto si vuole, ma di indubbio interesse, è quello del numero di accessi (1 maggio 2017) alla voce “cucina napoletana” in ambito Google: 1.510.000 (Italia), 691.000 (Regno Unito), 574.000 (Stati Uniti), 448.000 (Francia), 394.000 (Spagna).

[6] Viviano Iazzetti, Cucina e pasticceria napoletane in un ricettario inedito del Settecento, in: Gli Archivi per la storia dell’alimentazione. Atti del convegno: Potenza – Matera, 5-8 settembre 1988. Roma 1995,  vol. 3°, pp. 1627-1643.

[7] Guido Pensato, mangiare è il serpente infinito , in Guido Pensato e Saverio Russo, cit., colophon.