Seleziona una pagina

Giulio Sodano

La storiografia ha analizzato i consumi dell’aristocrazia europea attraverso l’analisi degli investimenti immobiliari e delle questioni suntuarie. L’attenzione si è poi focalizzata sui consumi culturali, sulle collezioni d’arte e sulle biblioteche che le famiglie aristocratiche possedevano nei loro palazzi. Da queste ricerche è rimasto però escluso il cibo. Sappiamo che le feste degli aristocratici erano un tripudio di prelibatezze, ma un’indagine complessiva sul rapporto nobiltà-cibo è ancora lontana.

Il ceto aristocratico europeo si è caratterizzato per processi di omologazione. Alcune istituzioni, come, appunto, la nobiltà del continente, sono state per loro natura transnazionali, esercitando nell’affermazione dei consumi e delle mode un peso più rilevante degli scali commerciali. Gli aristocratici condividevano modi di vita più con i nobili di altri paesi, che con gli abitanti delle proprie contrade. La loro identità di ceto superava di gran lunga quella locale, quasi come se gli aristocratici formassero una nazione a parte. La tendenza al piacere per l’esotico e soprattutto per l’esclusivo che attribuiamo al nobile europeo rischia quindi di mal accordarsi con un discorso sulla tradizione locale della gastronomia. L’immagine più comune è quella dell’aristocratico che consuma cioccolata, caffè e tabacco, cioè i prodotti delle colonie, fino poi all’eccentrico gentiluomo ottocentesco dedito a fumare oppio. Il nobile lotta per distinguersi dalla massa della plebe e tenta di tenersi a debita distanza dai parvenu che dispongono di risorse in grado di imitarlo. Deve quindi seguire costantemente l’ultima moda e ciò non si accorda con quanto proviene dalle sue terre.

Questa immagine dell’aristocratico incorreggibilmente snob va però declinata nel tempo, perché forse è più vera per l’aristocrazia del Settecento. Gli aspetti dell’internazionalizzazione della nobiltà e della moda erano già presenti nel Cinque e Seicento, tuttavia, quando i modelli nobiliari erano in piena costruzione ciascuna nobiltà nazionale orgogliosamente asseriva la superiorità delle proprie origini e quindi dei propri usi.

Quale quindi è stato il percorso compiuto dall’aristocrazia napoletana nel corso dell’età moderna nei confronti del cibo? C’è stata condivisione o invece distinzione e lontananza dai gusti alimentari locali?

Una rilevante fonte per la conoscenza degli usi della cucina napoletana dell’età moderna è il Ritratto o modello delle grandezze, delizie e maraviglia della nobilissima città di Napoli, di G. B. del Tufo della fine del Cinquecento. Il genere delle descrizioni geografiche è nato nell’ambito delle aristocrazie locali, che attraverso quelle opere celebravano la nobiltà del luogo di nascita e quindi della loro stessa condizione aristocratica. L’autore appartiene a una famiglia aristocratica napoletana. Nel descrivere in versi la sua patria, elenca i luoghi brulicanti di vita della città, spaziando dalle bellezze naturali, ai più coloriti prodotti gastronomici, con liste di pesci, frutti, minestre, dolci e volatili tra i quali intravediamo già la presenza dei piatti della moderna tradizione napoletana. Soprattutto nel Primo Ragionamento la descrizione della riviera di Chiaia offre l’occasione di un lungo elenco di prodotti ittici che fanno parte, ieri come oggi, della storia gastronomica partenopea. Si accenna infatti alla presenza di «cefali, spinole e vope» e poi a «treglie, calamari, anguille», nonché alle «sarde e alici» che richiamano al consumo del pesce azzurro del Tirreno. Non manca il riferimento al natalizio “capitone”. A proposito della frutta, del Tufo indulge nelle diverse tipologie di uva muscarella e fa riferimento all’uva cornicella, che tanta visibilità ebbe nella pittura del Seicento napoletano. Numerosi versi dell’opera sono poi dedicati alle insalate e alle verdure. Sappiamo che il napoletano, prima di essere nominato come “mangia maccaroni”, veniva identificato come “mangiafoglie” proprio per la ricchezza di prodotti degli orti e giardini della città. L’autore attribuisce un vero tripudio alle verdure napoletane, a partire dal broccolo. Tra le insalate il poeta innalza la sua lode alla foglia cappuccia. Altro prodotto che si ritrova tra i mercati cittadini è la trippa bianca, così come ancora oggi nei quartieri popolari della città possiamo trovare. A proposito dei vini, tra i suoi versi riecheggiano i nomi del Greco, del Lacrima, del Fiano e dell’Aglianico.

Ma oltre ai prodotti del territorio, nell’opera si riscontano anche procedure gastronomiche simili a quelle odierne. Le pietanze di pesce «nell’osterie avresti crude o cotte e fritte ed in paston», rievocando la pastella della frittura napoletana. Tra le verdure risultano il «vroccolo di rapa, che con l’aglio sofritto all’uoglio buono». Colpisce poi la procedura per la preparazione del “percopo” al vino, riportata in uno specifico sonetto.

Sebbene manchino pomodoro e pasta, la cucina napoletana appare aver preso già nel secondo Cinquecento i suoi tratti “moderni”, ben prima della rivoluzione gastronomica che ebbe luogo alla metà del XVII secolo, forse più per l’Europa settentrionale che per quella mediterranea.

Proviamo ad analizzare quanto nell’opera ci permette di cogliere più specificamente l’atteggiamento di un gentiluomo a fine Cinquecento nei confronti dei piatti che offriva la cucina napoletana. Del Tufo retoricamente afferma che il cibo di Napoli è degno della condizione nobiliare, ma in alcuni passaggi l’opera offre spaccati di vita del ceto nobile. Uno di questi è quello che dedica a ciò che ritiene essere tra i migliori piatti della cucina napoletana, il Pignato maritato.  L’effluvio che emana è tale che del Tufo non esita a paragonarlo a un profumo degno di un gentiluomo, che potrebbe degnamente impregnare i guanti e il collo dei suoi indumenti. Quello di del Tufo è sicuramente un artificio retorico che ci permette di intravedere l’abitudine del gentiluomo napoletano a profumare i propri guanti e i colletti, ma anche di cogliere che in fondo l’accostamento sensoriale tra l’odore di un piatto tradizionale e l’elegante odore di un gentiluomo non è affatto un’esperienza sensoriale disdicevole. L’autore poi descrive i banchetti aristocratici, con le tavole addobbate con frutta, fiori e ghiaccio a neve. I piatti a cui del Tufo fa riferimento per simili occasioni mondane sono i “sottostati”, vivande cotte sotto coperchio, cioè soprattutto stufati di carne variamente conditi.

Le carni in abbondanza rappresentano dunque il cibo per eccellenza delle mense dei nobili. Del Tufo a quei i piatti contrappone, senza alcuna inflessione di disprezzo, il cibo economico dei tanti napoletani, che non potendo permettersi una costosa dieta a base di carne e dalla preparazione elaborata, può fare altro, poiché a Napoli

«si compra a buon mercato
ché quasi un solo tornese
basta a farsi le spese:
che con un cavalluccio
si compra il taralluccio»

Per le strade della città, brulicanti di venditori che gridano «caso, ricotta, caso!», oppure «tara’, taralli freschi», tanto il nobile quanto il plebeo si procurano ghiottonerie. La differenza tra nobili e villani è dunque esclusivamente dettata dallo scarto delle possibilità economiche e non da questioni di gusto.

Il messaggio di del Tufo non va frainteso come un’opposizione alle serrate nobiliari del suo tempo. Anzi, egli è uomo di spicco tra gli autori che nella seconda metà del XVI secolo elaborarono l’ideologia della chiusura aristocratica, in opposizione alle dinamiche sociali che avevano favorito la marcia verso la nobiltà di ceti emergenti. Il suo scritto appare critico nei confronti dei processi di infiltrazione degli arricchiti nella nobiltà napoletana, e deplora l’involgarirsi dei costumi sotto la spinta di «certi sforgiati villancioni», che costituiscono il mondo dei parvenu, per i quali «Più che l’alma e l’onor val il quadrino».

Allorquando si stava costruendo l’ideologia dell’esclusivismo aristocratico attraverso l’elaborazione di codici di raffinati comportamenti volti a esaltare l’identità di ceto, da quella costruzione restava dunque fuori proprio il mondo dell’esperienza sensoriale del cibo. Tutto ciò non deve stupire. Quella costruzione identitaria nella fase cinque seicentesca aveva luogo attraverso anche un’esaltazione della propria terra, per evidenziare la superiorità della nobiltà napoletana rispetto alle altre aristocrazie, soprattutto quelle interne al sistema imperiale spagnolo. Nei codici nobiliari di fine Cinquecento quindi il cibo non costituiva un elemento di distinzione sociale, anzi poteva essere utilizzato addirittura a segnalare la nobiltà della propria terra. Sarà solo successivamente, con l’avvicinarsi del XVIII secolo che si avrà un divorzio tra la nobiltà e la gastronomia locale in quanto espressione popolare.

 

Bibliografia

  • Del Tufo G. B., Ritratto o modello delle grandezze, delizie e maraviglia della nobilissima città di Napoli, ed. a cura di O.  S. Casale e M. Colotti, Roma, Salerno, 2007.
  • Muto G., “I segni dell’honore”. Rappresentazioni delle dinamiche nobiliari a Napoli in età moderna, in M. A. Visceglia (ed.), Signori, patrizi, cavalieri nell’ età moderna, Bari-Roma, Laterza, 1992, pp. 171-192.
  • Muto G., Apparati e cerimoniali di corte nella Napoli spagnola, in I linguaggi del potere nell’età barocca, 1, a cura di F. Cantù, Roma, Viella, 2009, pp. 140-143.
  • Sodano G., Da baroni del Regno a Grandi di Spagna. Gli Acquaviva d’Atri: vita aristocratica e ambizioni politiche, Napoli, Guida, 2012.
  • Sodano G., Le aristocrazie napoletane, in Il regno di Napoli nell’età di Filippo IV (1621-1665), G. Brancaccio e A. Musi (eds), Milano, Guerini, 2014, pp. 138-143.