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Giovanni Vitolo

  Vino e castagne, che già in età antica erano largamente presenti sulle tavole delle popolazioni della Campania, hanno avuto a partire dai secoli finali del primo Millennio un continuo incremento della produzione, finalizzata non solo al consumo locale, ma anche all’esportazione in altre parti dell’Italia e dell’Europa, e finanche in Oriente: incremento che si è mantenuto costante nel tempo, talché la nostra regione ha rappresentato fino a qualche anno fa più di un terzo della produzione media nazionale di castagne, ancorché quasi interamente concentrata nelle province di Salerno, Avellino e Caserta, costituendo nelle zone del Roccamonfina, del Terminio-Cervialto, del Partenio, degli Alburni, del Calore Salernitano e del Cilento interno una componente fondamentale dell’economia. Si tratta di aree collinari e montane in cui il castagno occupa stazioni adatte alle sue esigenze pedoclimatiche; il che consente una produzione di buon livello sia per quantità sia per qualità.

Diversa la situazione nel Medioevo, epoca in cui ebbe una diffusione di gran lunga superiore a quella consigliata dalle condizioni ambientali, risultando presente anche in zone pianeggianti, come ad esempio il Nolano e il territorio compreso tra gli attuali Comuni di Nocera Superiore, Roccapiemonte, Mercato Sanseverino e Cava de’ Tirreni, la cui altitudine media sul livello del mare si aggira intorno ai 100 metri e da cui è scomparso in epoca moderna. Proprio per quest’area – caso unico in Italia e nell’intero Occidente –  conosciamo non solo i tempi precoci del fenomeno (tra IX e X secolo, con un incremento fortissimo a partire dal 950), ma anche i contratti agrari che regolavano i rapporti tra i proprietari delle terre e i coloni, le tecniche di coltivazione del castagno da frutto, distinto da quello da taglio, e di essiccazione delle castagne nonché le varietà prodotte[1]. Tra esse, nell’area tra Salerno, Cava e Amalfi, le zenzale, destinate a conseguire una grande rinomanza per la loro dolcezza, e le robiole, da identificare probabilmente con quelle che oggi i contadini dell’Avellinese chiamano «riggiole», dal frutto non molto dolce, simili alle  «raggiolane», presenti in varie zone della Toscana e della Romagna, oltre che, al Sud, nelle province di Matera, Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria. Nulla di preciso è possibile dire invece delle «granacce», il cui nome potrebbe far pensare ad un tipo particolarmente adatto alla produzione di farina, come le «granaiole» della Lucchesia[2]. Nel territorio di Avellino un contratto agrario del giugno 1033 prevede per il concessionario l’obbligo di innestare una varietà di castagne, la «palummina», che nel 1987 ha ottenuto il

riconoscimento della denominazione di origine controllata con la qualifica di «Castagna di Montella»[3]. Ad Atripalda, presso Avellino, sono documentate nel settembre del 1191 le «ensetazze», che dovrebbero essere, analogamente alle «insites» di Cava, le castagne nate da innesti, ma non è da escludere che fossero una varietà particolare, da assimilare alle «enzerte» di Acerno (SA)[4].

A partire dal Duecento sono poi noti anche i dazi di esportazione (i più antichi sembra che siano quelli fissati da Federico II nel 1231) e i mercati di destinazione, che nella prima metà del Trecento erano soprattutto Tunisi, Costantinopoli, Acri di Siria e Alessandria, ma anche Genova, Pisa, Firenze e le città della costa spagnola. Ne facevano incetta i mercanti stranieri, in particolare fiorentini, che inserirono in un circuito nazionale e internazionale, e per operazioni di grossa portata, non solo le castagne, ma in generale i prodotti dell’agricoltura meridionale, tra cui noci, nocciole, mandorle e soprattutto il vino.

Quest’ultimo è nel Medioevo uno dei prodotti più richiesti dal commercio internazionale e quello che più alimentava il movimento del porto di Napoli, che si venne configurando nel Tre-Quattrocento come un vero e proprio porto del vino. Anche per esso sono precoci le notizie relative a nuovi impianti, alle tecniche colturali, agli obblighi contrattuali dei coltivatori, ai tempi e ai modi della consegna della quota parte del prodotto destinata ai proprietari. Siamo infatti ancora una volta già ai primissimi anni del sec. IX  e con incrementi esponenziali prima del Mille, che portarono il vigneto a raggiungere dimensioni mai raggiunte in precedenza, pur essendo la Campania e il Mezzogiorno in generale già noti nell’Antichità per la quantità e la qualità del vino che vi si produceva.

All’origine del fenomeno dovettero esserci le stesse motivazioni che ovunque portarono alla diffusione di questa coltura anche su terreni ad essa non particolarmente adatti, quali il carattere mistico-sacrale del vino nell’ambito della celebrazione della messa (il vino che diventa il sangue di Cristo), il suo valore terapeutico e l’impiego che se ne faceva per la preparazione di molti farmaci, e infine il suo essere una delle poche forme di evasione in una vita quotidiana in Campania, non meno che altrove, tutt’altro che facile e ricca di altre occasioni di distrazione[5]. Un ruolo di primo piano nella promozione del vigneto sia nelle immediate vicinanze delle mura cittadine sia in aperta campagna svolsero gli ecclesiastici, chierici e monaci, per i quali il vino era indispensabile sia per l’uso liturgico sia per il consumo proprio e per quello di pellegrini e ospiti in genere; ma tutt’altro che marginale fu il contributo dato dai laici, esponenti sia della nobiltà sia del nuovo ceto borghese.  A Salerno scoppiò nel 1294 una vera e propria “guerra del vino”, provocata dalla contrapposizione tra gli interessi dei produttori locali e quelli dei consumatori, che ai vini delle colline circostanti preferivano quelli della vicina pianura di Sanseverino, di qualità più scadente e di più bassa gradazione alcoolica, ma di prezzo inferiore[6]. Il concorrente più temibile per il vino salernitano era però quello che arrivava dal Cilento a bordo di piccole imbarcazioni, che solcavano in gran numero il tratto di mare compreso tra Policastro e Napoli[7]. Nel porto della capitale del Regno il vino arrivava anche dalla Costiera Amalfitana, da Sorrento e dai Campi Flegrei, per poi raggiungere nel corso del Quattrocento con navi genovesi e catalane i mercati esteri di una vasta area che andava dall’Inghilterra al mare d’Azov e comprendeva la stessa Francia, i cui vini della Linguadoca e di Provenza già allora godevano di grande rinomanza.

 

Bibliografia essenziale

Melis, I vini italiani nel Medioevo, Firenze 1984; G. Cherubini, L’Italia rurale del Basso Medioevo, Bari 1985; G. Vitolo, Produzione e commercio del vino nel Mezzogiorno medievale, in «Rassegna Storica Salernitana», n. s. 10 (1988, dicembre), pp. 65-75; Id., Il castagno nell’economia della Campania medievale, in «Rassegna Storica Salernitana», n. s. 11 (1989, giugno), pp. 21-34; Il vino nel Cilento dai Greci al D.O.C., a cura di L. Rossi, Acciaroli (SA) 1994; La civiltà del vino. Fonti, temi e produzioni vitivinicole dal Medioevo al Novecento, a cura di G. Archetti, Brescia 2003.

[1]  Codex Diplomaticus Cavensis, I-VIII a cura di M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Mediolani-Pisis-Neapoli 1873-93; IX-X, a cura di S. Leone, G. Vitolo, Badia di Cava 1984-1990; XI-XII, a cura di Carlone, L. Morinelli, G. Vitolo, Badia di Cava 2015: I, 13 (822, novembre); I, 224 (955, maggio); II, 9 (962, agosto); II, 148 (980, aprile); II, 192 (983, luglio); II, 229 (986, gennaio); III, 54-55 (966, giugno); IX, 207 (1069, gennaio)

[2] G. Vitolo, I prodotti della terra: orti e frutteti, in Terra e uomini nel Mezzogiorno normanno-svevo. Atti delle settime giornate normanno-sveve (Bari, 15-17 ottobre 1985), a cura di G. Musca, Bari 1987, pp. 159-185: pp. 174-175.

[3]  Codex Diplomaticus Cavensis, cit., V, 234-235.

[4] Giornata del castagno in collaborazione con la Società Orticola Italiana (Caprese Michelangelo [Arezzo], 3 dicembre 1977), Firenze 1979, p. 275.[5] M. Montanari, L’alimentazione contadina nell’alto Medioevo, Napoli 1979, pp. 373 ss.

[6] A. Sinno, Commercio e industrie nel Salernitano dal XIII ai primordi del XIX secolo, Salerno 1954, vol. II, p. 155.

[7] M. Del Treppo, Marinai e vassalli: ritratti della gente del mare campana nel secolo XV, in «Rassegna Storica Salernitana», n. s., 4 (1965, dicembre), pp. 9-24.